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I ragazzi del liceo scientifico di porto Sant’Elpidio alla serata finale di “Politaca”

Un consenso generale ha accolto tre giovani studenti della 4A Liceo Scientifico “Carlo Urbani” di Porto Sant’Elpidio, Sara Maria Abia Cucchi, Marco Piermarini e Michelangelo Roscioli, che hanno inaugurato la serata finale del Festival POLITACA venerdì 19 Novembre presso la Chiesa San Filippo Neri a Fermo. Chiamati ad introdurre una tematica ardua ma molto attuale, quale appunto “Futuro in trance: cosa ci aspetta al di là della fantascienza?”, hanno saputo rivolgersi al pubblico presente con competenza, maturità e senso critico. Questo il loro intervento.

Pier Paolo Pasolini aveva distinto lo sviluppo dal progresso, con una notevole differenza tra i due termini, che vede il primo essenzialmente volto al profitto escludendo qualsiasi componente umana, mentre il secondo considera come valore primario il benessere sociale. Il mondo al di là della fantascienza, nel quale tutti ci vogliamo proiettare, si deve interrogare sulle questioni etiche e deve tener conto della componente umana a cui abbiamo prima accennato. Umberto Galimberti definisce la tecnica coma la forma più alta di razionalità raggiunta dall’uomo, cioè l’azione per ottenere il massimo scopo con il minimo dei mezzi. Noi uomini ci siamo sempre serviti della tecnica per raggiungere i nostri fini. Il problema oggi è chiederci se il futuro che ci prospetta questa era straordinariamente tecnologica tenga conto sempre e comunque della dimensione umana, anche nella sua componente sociale. Perché ricordiamoci che la relazione umana è comunque fondamentale, sia per la comunità sia per l’individuo che, come diceva Aristotele, privato della sua socialità, o è bestia o è Dio, ipotesi quest’ultima ovviamente da scartare!

 Le tecnologie del futuro, a seconda di come indirizziamo il progresso, potrebbero diventare una grande opportunità o un ipotetico pericolo.  Però non dobbiamo neppure rischiare di cadere nell’estremo opposto, quello cioè di aver paura del progresso stesso, come fecero alcuni pensatori antichi, ad esempio Platone o Rousseau, che temevano il futuro poiché lo vedevano collegato ad un regresso morale e sociale. Non dobbiamo avere le loro stesse paure e dobbiamo riuscire ad intuire e ad accogliere le opportunità che ci si presentano davanti e con cui potremmo affrontare le prossime sfide, per garantirci un futuro che non sia in trance.

Allora chiediamoci, che cosa vogliamo noi dal futuro?  Innanzitutto non vogliamo ripetere errori già commessi, il nostro approccio al futuro deve guardare anche al passato, ripristinare legami ancestrali con la Terra, ristabilire una sintonia che ci permetta uno sviluppo “ad impatto zero”.

Un ambito verso il quale pretendiamo maggiore preoccupazione è quello della ricerca scientifica, considerata spesso dalla politica un’opzione, qualcosa di non necessario, una spesa che grava inutilmente sui conti pubblici, quando in realtà è il vero motore per il progresso dell’umanità ed inviolabile diritto della stessa. Una ricerca indirizzata verso nuove prospettive: in campo medico, in campo aereospaziale ed in campo ecologico.

Per quanto riguarda l’energia, l’ambito nel quale abbiamo errato di più, dovremmo per prima cosa guardarci intorno, apprendere un nuovo modo di pensare, essere lungimiranti nell’osservazione di quello che la Terra ha da offrirci, una Terra di cui dobbiamo essere pronti a cogliere le risorse: il solare, l’eolico, l’energia del mare e il calore della terra. Guardiamo poi in profondità per scorgere le prospettive di una nuova energia, quella nucleare, che stiamo imparando a conoscere anche con la giusta diffidenza, un’energia che risulta in prospettiva tanto un pericolo quanto un’opportunità.

Queste nuove frontiere vanno accolte nel rispetto della natura, poiché il rischio di cannibalizzarla è concreto e ciò porterebbe a farla diventare veramente quello che diceva Leopardi: Madre di parto e di voler matrigna.

Al di là della fantascienza ci aspetteremmo un progetto vincolato al perseguimento della sostenibilità ambientale e al benessere della collettività: “Homo sum. Nihil humani a me alienum puto”.